Ovunque si vada, quanto che sia il tempo che intercorre dal momento in cui si esce con la moto a quello in cui la si ripone sul cavalletto in garage, quale che sia il motivo per cui l'abbiamo fatto, viene appunto il momento in cui il motore tace, la cinghia del casco si allenta, i guanti scivolano via dalle dita e la testa si resetta automaticamente su una dimensione diversa. Vero o no? Vero che senza rendercene conto, il neurone asfittico ha continuato a lavorare, a farci fare le cose giuste, le mosse adeguate, ma lavorava in un modo differente rispetto ad ora, che coi guanti in mano ascoltiamo lo scricchioliio del terminale ma già elaboriamo una sequenza "to do" e riorganizziamo questo stralcio di giornata residuo in maniera "corretta"?
Credo, a volte spero addirittura, che il rientro sia dotato anche di una fase intermedia, che risiede nello switch tra queste due forme mentali appena dette: la valutazione, la degustazione del sapore, l'accoglimento di quanto il viaggio, di un mese o di poche ore che sia, abbia influito sul nostro modo di pensare, di essere, di comportarci.
Troppo spesso, direi quasi sempre, ciò che si soppesa è la differenza tra quel che si è visto e quel che non si è riusciti a vedere. Quel che si è fatto e quel che non siamo riusciti a fare. Dove siamo stati e dove non siamo riusciti ad andare. Come "siamo stati" e come "non siamo riusciti a stare". Aspettative.
Come se quel viaggio avesse, come scopo, la possibilità di marcare dei circoletti su una mappa, o (per i meno romantici) la marcatura di alcuni waypoint sul GPS. Così fosse, non avremmo ricavato un granchè. E se fosse tutto quel che cercavamo beh, facciamoci delle domande.
Se una attività come quella di andare in moto, che riteniamo basilare in quanto della sfera della gratificazione (e quindi necessaria all'equilibrio) non ci lascia altro, non ci offre il piacere di assaporare quel che ci ha dato, e quel che siamo riusciti a scambiare, c'è qualcosa di erroneo nel nostro modo di impostare la nostra sfera emozionale e relazionale.
Anche un cinico come me, che più che altro dice "prendo la moto, punto" ha, consciamente o meno, un obiettivo? Ossia ,intendo, diverso dall'arrivare da - a?
Scrivo e mi domando se tutto questo non sia esagerato, prosopopaico. Se per caso attribuisco troppa cerebralità (non oso parlare di spiritualità) ad uno spostamento. Eppure non c'è azione che non sia a qualche livello motivata, per cui mi sento autorizzato intimamente a procedere con la speculazione.
Se non cercassimo uno scambio con l'ambiente, con le persone, con noi stessi soprattutto, che senso avrebbe? Lo faremmo ugualmente? Io dico di no.
Fino in piazza o fino a Tashkent che sia, facciamo una programmazione, calibrata sull'impegno, per arrivare e soprattutto per percorrere. Ci chiediamo insomma che ci serve e cosa vogliamo da quello spostamento. La meta vera è il viaggio stesso.
Lo sappiamo tutti, e praticamente tutti lo condividiamo, questo principio. Ernesto Guevara fece di un viaggio, quello con la Poderosa di Gardoso, un confronto tra quel che esso era e quello che incontrava, e questo viaggio lo cambiò al punto da trasformare un laureando in medicina nel Comandante, nel Che.
Idealismo. Solo quello, o la capacità appunto di arricchirsi di consapevolezza vivendo quel che si fa, invece che lasciarlo scorrere attraverso il plexi di una visiera, come fosse lo schermo di un cinema?
Quante volte riportiamo a casa il piacere ricevuto dalla curva del cielo, dai colori della campagna, dall'attrazione del diverso? E' facile, per una mente viva. Ma per una mente non è altrettanto naturale cogliere e immagazzinare l'interazione con queste realtà, fatte di pensiero, cultura, modo di vivere, situazione geopolitica, povertà o ricchezza? E' la distanza da quel che siamo, che offre lo stimolo al mononeurone, oppure quella è solo la dimensione macroscopica di un evento che comunque accade anche andando al supermercato sotto casa? Chiediamocelo. Chiediamoci se anche solo vedersi per qualche semplice ora con le persone ormai usuali ci ha comunque dato spunti per progredire e sviluppare noi stessi. Ogni situazione ha il dono di offrire la possibilità di renderci migliori. Sappiamo coglierle, o le lasciamo morire? Quanti tram perdiamo ogni volta, opportunità date inconsapevolmente da compagni di avventura, e quante ne sappiamo cogliere?