Per forza, si fa comunque meno fatica che ad andare per boschi, ormai!

Sabato di metà ottobre. Ci sono arrivato, insieme a tutti gli altri, tra giorni di grigiore, foschie e pioggerelline.
Eppure stamattina mi sono svegliato con un sole timido ma tiepido. Ci metto un attimo: invece della programmata attività domestica, doverosa in quanto, secondo un’ottica patriarcale, sono capofamiglia, famiglia, massaia e perfino badante, tutto di me stesso, svolgo le operazioni di routine in una sequenza che ha una scansione militare di quelle da corpo scelto. Pipì, colazione, doccia, denti, barba? No, si salta, per cui mi tuffo nell’armadio dove sono ripiegate, più o meno ordinatamente, le cose da moto.
Scelgo il completino Hebo, non ho voglia di essere troppo chiassoso oggi. Anche perché sopra metterò la giacca Progrip alla quale staccherò le maniche e quella, col rosso, non ha granché a vedere. Non è che per il solo fatto di andare in moto bisogna dimenticare il buongusto, vero?
Mentre mi vesto mi organizzo mentalmente il giro. E’ tardino, poi ho dato l’occhiata di ordinanza al forum, le solite quattro fesserie che potevo evitare ai poveri amici che leggono, le novità di Facebook, et voilà, sono le 11. Poco male, per le 13, 13:30 dovrei essere a casa. Scaldo il motore su asfalto, al capitello mi butto nella laterale, seguo la vallata, resisto alla tentazione di fare il guado con il sentiero che porta in quota perché è proibito, poi eccomi alla S cementata e sono pronto per il discesone malefico. Quindi vai di manetta leggera nello stretto della pista nel bosco, attraverso l’asfalto e su dall’altra parte, dove immagino già la smadonnata per quel tornante strettissimo col fondo cosparso di tegole sbriciolate, umido a trazione zero, zampettata sicura. Breve bitume, su per l’altra valle, fondo compresso ed attenzione a non arare, peccato perché si potrebbe salire a velocità da Shuttle. In cima, seguire la cresta, seconda-terza a brevi colpi di gas, tra faggi e castagni, fino alla discesa col muro a secco, dove le “bottarelle” di Arrow raddoppiano la loro consistenza e poi via di manetta nel prato che costeggia il bosco, tracce da trattore dove fino a un mese fa cresceva il mais e l’umidità soffocava. Di nuovo nel bosco e su per quei due punti fetenti dove bisogna scorrere ed evitare le buche dei ragazzini che salgono a millemila giri coi loro motorini anemici, seguire gli sfiati del gasdotto, fare attenzione al fondo di foglie fradice, testa di sghembo per non farsi schiaffeggiare dai rami di nocciolo. Adesso occorre recuperare il ritmo della respirazione sculettando morbidi in terza fino alla fine del bosco, proprio sul tornante asfaltato, poi giù fino al deposito comunale, e manetta piena tra i campi a raggiungere l’asfalto per il rientro.
Vedo il film della cavalcatina come fosse in real time, anche il timing è aderente alla realtà. Vestito da enduro, ma in scarpe da running e senza pettorina, trotterello giù per le scale, apro la porta del tunnel garage.
Piove. Premo il pulsante dell’A.S.M. (Automatic Smadonning Machine) e switcho l’apparato in modalità “raffica”.
Magari dura poco, intanto apro la seggiolina pieghevole, infilo gli stivali, indosso la pettorina, e ogni volta gesti ripetitivi mi richiamano alla mente un rituale, nel quale i gesti si ripetono lenti e con una enfasi ampia, che fa pensare al Toreador nella sala da vestizione, mentre porge braccia, gambe e busto all’assistente. Lui, già chiuso nel mondo in cui esistono soltanto El Toro e sé stesso, si lascia abbigliare pezzo dopo pezzo ma è già “lì”, pensieri sulla sorte, sulla morte, sulla forza dell’avversario. Lo sguardo è lontano, indifferente a quel che gli succede attorno, piccolezze che non lo riguardano.
Ho finito, è tempo di spingere la Bastarda avanti dal fondo del garage. Ha smesso? Macché! Macchissefrega.
Nottolino dello starter, mezzo giro, poi tirare e rilasciare. Pulsante di contatto. Pulsante di avviamento. Ingranaggio che gira roco, pochi secondi, forse due, tre? Poi eccolo. Rattatatatattatatatattatatà. Sbraaammmm, sbraaammmmm!! Casco, guanti. Porto gli occhiali davanti al viso e con un tocco sono fissati, la gamba destra si lancia in avanti ed in alto, scavalca la sella, e tutta la procedura avvicina al momento che taglia il respiro per quella infinita frazione di secondo. Le mani cercano le manopole, due tirate alla leva della frizione, poi le dita si serrano e la leva rimane giù, eccolo, apnea, tlack. Dentro la prima. Le nocche allentano la presa, il polso destro si piega leggermente all'indietro. Non occorre andare lontano, in fondo, per l'emozione che ti regala la moto. Si va.