Quando Marco Simoncelli morì, era domenica mattina e stavo scorrazzando in moto per la campagna di Inzago, era una giornata serena e lungo una strada sterrata, sentì il cellulare vibrare nella tasca della giacca. Mi fermai, levai il casco, infilai gli occhiali e guardai il video del telefono e questo ricominciò a suonare. Era mio fratello, mi avvisò in breve di quanto successo nel gran premio della moto gp e io rimasi da prima perplesso e poi scosso, frastornato come se la cosa che sentivo raccontare dalla voce di mio fratello facesse in qualche modo parte di me e della mia persona. È sì, avere una figlia di tredici anni che sul suo diario ha incollato il numero 58 in copertina, mi complicava tremendamente la cosa. La prima sensazione alla notizia di Simoncelli morto, fu quella dello sportivo, poi si fece largo in me la reazione da padre, non solo padre della ragazzina che vorrebbe conoscere Marco in un futuro ormai negatogli, ma anche quella del genitore che perde un figlio così giovane, immediatamente calò su di me un velo nero disteso sotto al casco, sotto i guanti, direttamente sulla pelle. In quel campo io piansi, poco perché non sono molto pratico di lacrime, ma piansi sinceramente e mi sentì come un genitore triste. Mi vennero alla mente le polemiche assurde per quel sorpasso su Pedrosa di qualche domenica prima, un sorpasso a mio giudizio solo “aggressivamente sportivo” che molti avevano bollato come “assassino”, mi venne in mente lo sbigottimento di Marco quando gli dissero che era sotto investigazione per quell’episodio. Mi vennero in mente i suoi riccioli schiacciati nel casco, la sua moto, la morosa, mia figlia, il suo diario col numero 58 e la moto che avevo sotto al sedere in quel preciso momento. L’unico vero conforto, ancor prima di vedere l’incidente nelle mille e più repliche di una tragedia, fu quello di pensare che Marco fosse morto facendo ciò che preferiva, consapevole del dubbio che questa, sia solo una bella scusa che ci si tira quando non si sa esattamente a che santo votarsi. Arrivai a casa, mi ero quasi convinto che mia figlia, una ragazzina col carattere molto, troppo simile al mio, avrebbe saputo affrontare la cosa con la leggerezza dei suoi anni e invece, là nella sua cameretta, col libro d’inglese aperto sotto al naso, scorsi in un angolo del suo grande ed incasinatissimo tavolo, un mucchio di fazzolettini bagnati dalle sue lacrime. Le dissi:” Silvia, Marco è morto facendo la cosa che più amava fare, se tutti potessimo morire in una condizione analoga, saremmo uomini fortunati, invece non è così”. Mia figlia Silvia mi rispose:” Papà lo so, si muore di più e in modo peggiore nei cantieri edili dove lavori tu, ci sono molti extra comunitari che muoiono in mare, ma a me Marco, piaceva”. Non ho guardato “Sfide” per non alimentare quella lieve tristezza impotente che cova sotto al mio casco di padre. Tutto qui